Sibilla Aleramo.it

un sito a cura di Alvise Manni e Sergio Fucchi

pubblicato il 13 gennaio 2010

Il paesaggio civitanovese
A 100 anni da "Una donna" Archivio
Rassegna stampa

 

Raimondo Giustozzi

Il paesaggio civitanovese nella pagine del romanzo “Una donna”

 

Sono molte le pagine del romanzo autobiografico “Una Donna”, dedicate da Sibilla Aleramo alla descrizione di luoghi, Civitanova Marche dove visse per ben dodici anni.

L’arrivo a Porto Civitanova era carico di dolce promesse: “Sole, sole! Quanto sole abbagliante! Tutto scintillava, nel paese dove io giungevo: il mare era una grande fascia argentea, il cielo un infinito riso sul mio capo, un’infinita carezza azzurra allo sguardo che per la prima volta aveva la rivelazione della bellezza del mondo. Che cosa erano i prati verdi della Brianza e del Piemonte, le valli e anche le Alpi intraviste nei primi anni, e i dolci laghi ed i bei giardini, in confronto di quella campagna così soffusa di luce, di quello spazio senza limite sopra e dinanzi a me, di quell’ampio e portentoso respiro dell’acqua e dell’aria? Entrava nei miei polmoni avidi di tutta quella libera aria, quell’alito salso: io correvo sotto il sole lungo la spiaggia, affrontavo le onde sulla rena, e mi pareva ad ogni istante di essere per trasformarmi in uno dei grandi uccelli bianchi che radevano il mare e sparivano all’orizzonte. (S. Aleramo, Una donna, pag. 28, Milano 1950).

Era il luglio 1888. Sibilla Aleramo arrivava a Portocivitanova assieme al padre Ambrogio Faccio, alla mamma Ernestina Cottino, alle sorelle Corinna e Iolanda, al fratello Aldo. Belle le pagine lasciate dal compianto Ricciotti Fucchi sull’arrivo in treno della famiglia Faccio a Porto Civitanova. Il papà della futura scrittrice era stato chiamato nella cittadina adriatica, dal marchese Claudio Sesto Ciccolini, a dirigere la fabbrica delle bottiglie: “Un signore che voleva stabilire un’industria chimica in una “cittaduzza del Mezzogiorno” (così definiva Sibilla Aleramo la cittadina adriatica che si andava allora formando) offrì la direzione dell’impresa a mio padre. Certo, questi osava molto accettando un genere di lavoro al quale era affatto nuovo. Ma il suo bel sorriso sicuro aveva sedotto il capitalista. Le condizioni dell’impiego erano ottime; il paese, laggiù, pieno di sole. Per qualche anno. Mio padre non amava guardare molto innanzi nell’avvenire. Pel momento si sentiva felice del rischio. E non curando i timori della mamma, decise di partire per la primavera” (ibidem pag. 28).

All’arrivo a Porto Civitanova, Sibilla Aleramo aveva dodici anni, come detto da lei stessa nel romanzo. La famiglia venne sistemata in un’ala del palazzo Cesarini Sforza, là dove fino a pochi anni fa era la biblioteca comunale Silvio Zavatti. Il balcone dell’appartamento è quello che guarda verso Corso Umberto da un lato e sulla piazza dall’altro: “Uscivo sull’alto balcone, guardavo giù nella piazza gli sfaccendati presso la farmacia o dinanzi al caffè (Maretto), qualche contadina oppressa da pesi inverosimili, qualche ragazzo sudicio che inveiva contro qualche altro in un linguaggio sonoro ed incomprensibile”. Ovviamente, il mare non era così distante come oggi, ma la battigia  correva in fondo alla piazza attuale, ancora in terra battuta e sabbia: “In fondo alla piazza il mare luceva. Due ore avanti il tramonto si disegnavano, lontane, lontane, le vele delle paranze di ritorno dalla pesca: s’avvicinavano, si colorivano di rosso e di giallo, arrivavano una dietro l’altra, e il tumulto  delle voci dei pescatori giungeva spesso fino a me; distinguevo il grido ritmico di quelli che traevano la barca a riva”. (S. Aleramo, Una Donna, pag. 29). Non c’è più nulla di tutto questo. Non ci sono più le lancette, solo quella di Peppinello Santini, posta al centro di in una rotonda sul Lungomare nord, non c’è più il trabaccolo Prudente, lasciato marcire per anni in un cantiere, esposto al sole, alla salsedine marina, alla pioggia, al freddo, al gelo. Rimangono, di questo spaccato di una Civitanova che non c’è più, le fotografie e la ricostruzione paziente e minuziosa fatta dai fratelli Mariano ed Angelo Guarnirei, Baiocco e Primo Recchioni, in alcuni libri davvero unici: “Per non dimenticare”, “La lancetta e il vecchio ambiente marinaro civitanovese “Un mondo scomparso”, Macerata 1982, “La lancetta civitanovese, colori, segni e simboli delle vele”, Bologna 1985.

La grande fabbrica della vetreria stava venendo su come per incanto. Inizierà la produzione il 1 Gennaio 1889. Così, Sibilla Aleramo ne descrive la costruzione: “Scendevo, mi recavo nel vasto recinto presso la strada ferrata, dove lo stabilimento andava sorgendo con rapidità sorprendente e dove il babbo passava  quasi tutte le sue ore... (pag. 29). Degli operai, de’ bei contadini abbronzati che venivano dalla campagna ad offrirsi come manovali, delle ragazze che salivano agili sui ponti dei costruzione coi secchi di calce sul capo, mi sorridevano, ed io sentivo verso di loro una curiosità piena di simpatia; ne ripetevo ai fratellini i pittoreschi soprannomi, e mi chiedevo se avrei mai osato essere per loro una padrona, come ero colla donna di servizio”. (pag. 29).

Gli operai! Muratori e manovali addetti alla costruzione della fabbrica provenivano dalla vicina campagna. Erano i più fortunati, per gli altri contadini, in esubero nelle campagne, era aperta solo la strada dell’emigrazione verso le Americhe. Gli anni che vanno dal 1887 al 1913 sono quelli della grande emigrazione. Le cifre che riguardano Civitanova Marche sono puramente indicative e vanno lette per difetto, sono cioè molto più alte: 114 emigrati nel 1887, 166 nel 1888, 151 nel 1889, 110- 150 nei primi anni del '900, 323 nel 1912. Emigravano un po' tutti, ma soprattutto contadini assunti come braccianti, pescatori. A Civitanova, la mancanza di un porto rifugio ostacolava di molto l'attività del settore. I paesi dell'emigrazione: Argentina dove arrivò il 62% degli emigranti, il Brasile con il 25%, questo nel 1887, qualche anno dopo l'88% degli emigranti sceglieva l'Argentina. Portocivitanova era uno snodo importante per l'emigrazione per tutta la provincia di Macerata. Agivano nella cittadina, diversi sub agenti per le compagnie di navigazione che organizzavano i viaggi transoceanici. La presenza della stazione ferroviaria permetteva alla gente di risalire la penisola per imbarcarsi al porto di Genova, da qui in nave, negli Stati dell'America Latina.

La famiglia Faccio era vista dalla gente del posto con una certa ammirazione ed atteggiamento reverenziale: “Quando certe sere, dopo il pranzo, uscivamo un po’ con il babbo, la mamma e noi figliuoli, per lo stradone maggiore del paese (l’attuale Corso Umberto), la gente ci osservava dalle soglie con un misto di ammirazione e di timore. Trovavano alla mamma un viso da madonna, e voci femminili le mormoravano dietro benedizioni per i suoi bambini. Ella ringraziava col sorriso mite, piccola e fine nel vestito quasi dimesso”. (pag. 30).

Sibilla Aleramo non frequenta la scuola, perché in paese non ce n’erano. L’anno dopo (1889) entra in fabbrica come impiegata regolare, interessandosi con il babbo alle vicende dell’azienda e viene a contato con gli operai, “chiacchierando con loro durante gli intervalli di riposo. Erano molti, più di duecento; una parte, che veniva dal Piemonte, si alternava ai forni giorno e notte, e gli altri, del pese, si agitavano continuamente nei vasti cortili e sotto le tettoie”. (pag. 30).

Gli spazi d'uso della fabbrica erano così distribuiti: al piano terra il magazzino, le materie prime e gli impiegati, al primo piano il capannone con il forno fusorio, uno soltanto a bacino nel 1888, al quale se ne aggiunse un altro nel 1908, sei forni per la ricottura, come è possibile notare dalle carte intestate della ditta società anonima per azioni con sede a Milano, amministratore il marchese Claudio Sesto Ciccolini, la direzione tecnica affidata all'ingegnere Ambrogio  Faccio.

La produzione ammontava a 6.000 bottiglie al giorno, 1.440.000 all'anno, per 240 giorni lavorativi, nei mesi estivi lo stabilimento veniva chiuso, licenziati gli operai senza nessuna sicurezza per la riassunzione all'inizio della stagione successiva fissata per la metà di settembre. Il trasporto dei materiali indispensabili per alimentare la produzione, avveniva per ferrovia: 700 vagoni all'anno scaricavano nella fabbrica di bottiglie: carbon fossile, solfato di soda, manganese, terre refrattarie, ferro, vimini, paglia di imballaggio. Nella  fabbrica di bottiglie di Portocivitanova, all'apertura 1 Gennaio 1889 lavoravano 70 operai, 30 indigeni e 40 provenienti dall'Italia settentrionale, l'età media sui trent'anni, molti i celibi, 48 su 70, soprattutto forestieri. Iniziata la produzione, il numero di operai alla fabbrica di bottiglie cresce di anno in anno, con qualche calo in momenti particolarmente difficili per l'azienda: 186 operai nel 1890, 122 nel 1892,167 nel 1893,195 di cui 19 donne nel 1894, 187 di cui 22 donne nel 1895, 204 di cui 23 donne nel 1896, 215 nel 1897, 186 nel 1900, così divisi: 19 maestri soffiatori, 19 gran garzoni, 19 levavetro, 29 portantini. 59 addetti al magazzino, di cui 30 donne, più sovrintendenti al  forno, guardia sala, addetti alle caldaie, imboccatori, impilatori, gazieri, fabbri, carrettieri, carbonai, 5 commessi, una guardia allo stabilimento. Il numero più alto  degli operai è del 1902, 235 unità e del 1913, con 400 operai di cui 150 provenienti da Civitanova Alta.

La fabbrica rimaneva chiusa nel corso del quinquennio 1915-1920. Riapriva e nel 1925 arrivava ad avere 215 operai, nel 1928 chiudeva definitivamente la produzione. In fabbrica, prima della costituzione della lega dei bottigliai, non esisteva nessuna difesa sindacale, si poteva essere licenziati da un momento all'altro, sottoposti ad una disciplina ferrea durante le ore di lavoro, multati se si arrivava in ritardo, per lavoro difettosi e naturalmente per sciopero, tanto per ogni operaio che si licenziava o veniva licenziato, il direttore ne  trovava sul mercato quanti ne voleva. La manodopera abbondava, l'alternativa per chi era senza lavoro era l'emigrazione in Argentina o in Brasile, le campagne si andavano letteralmente spopolando.

All'interno della fabbrica, i salari erano molto differenziati. Levavetro, gran garzoni e maestri soffiatori lavoravano a cottimo, mentre portantini ed altri operai venivano pagati a giornata. Nel 1905 i maestri soffiatori prendevano 10.50 lire al giorno, i gran garzoni 4.50 lire, i Levavetro 2.50, i portantini 1.60 lire al giorno se erano ragazzi al di sopra dei 17 anni, una lira se al di sotto di quella età.

Tra i portantini c'erano anche i ragazzi, dodici, di età inferiore ai 15 anni, secondo una lettera di Ambrogio Faccio dell'Aprile 1889, sei mesi dopo ne erano venti. Lavoravano dalle sei alle sette ore al giorno, secondo le dichiarazioni dell'ingegnere, non si sa dichiarate in buona fede o no, molto probabilmente anche questa precisazione è da prendere con il beneficio dell'inventario. E' naturale poi che il pagamento a cottimo ed a giornata era pensato proprio per spezzare il fronte di lotta degli operai, cosa che non riuscì affatto alla direzione della fabbrica, anzi rinsaldò ancor più la volontà di combattere contro i soprusi e le ingiustizie, tanto da fare degli scioperi che si susseguirono violenti nella fabbrica, un caso che oltrepassò anche i confini della cronaca locale. Quelli che lavoravano a cottimo avrebbero dovuto chiedere nelle intenzioni del Faccio, che la produzione fosse alta perché più pezzi producevano, più alto era il salario, gli altri erano pagati a giornata e non erano interessati alla quantità perché percepivano lo stesso salario, sia che la produzione fosse alta, sia che fosse bassa.

L'atteggiamento del Faccio verso gli operai, molti di loro, contadini inurbati o pescatori, le maestranze erano tutte di origine piemontese o lombarda, era di assoluto disprezzo, ai suoi occhi, i primi erano lenti ad apprendere ed incivili. Questo comportamento però era assai diffuso in quel tempo presso tutti i dirigenti d'azienda ed in tutte quelle aree toccate dall'incipiente industrializzazione. Si voleva fare subito e senza mezzi termini, di colui che fino a poco tempo prima aveva regolato il proprio lavoro e la propria esistenza sui ritmi delle stagioni, sia che lavorasse in campagna, sia che lavorasse in mare, un operaio efficiente pronto a chinare la testa ad ogni ordine del suo superiore, tutto doveva essere sacrificato insomma sull'altare della produttività. Il tempo umano cambiava estensione ed entrava in una dimensione esclusivamente produttiva, mentre il vecchio mondo, fosse da rimpiangere o no, moriva malinconicamente e simbolicamente nelle latrine di una fabbrica, quella dei Caprotti di Ponte Albiate, nel milanese, primo grande esempio di tessitura, dove diversi operai fino a poco tempo contadini, in evidente difficoltà di fronte ai ritmi di produzione imposti dalle macchine, presero a nascondere nelle latrine della ditta, parte del cotone che non riuscivano a lavorare secondo la quantità imposta dai dirigenti, così scrive Roberto Romano nel libro: “I CAPROTTI, L'AVVENTURA ECONOMICA ED UMANA DI UNA DINASTIA INDUSTRIALE DELLA BRIANZA”. Scrive anche lo storico Raffaele Romanelli: " I regolamenti severissimi, le sanzioni disciplinari, i rituali di comportamento imposti nelle fabbriche dell'epoca sembravano concepiti per trasformare le abitudini di vita, atteggiamenti e l'intera personalità del contadino appena inurbato che si riteneva per questa sua natura tardo ad apprendere, tendenzialmente incivile ed amorale, educandolo ai nuovi valori di una gerarchia meccanica in cui l'etica del lavoro era rigorosamente misurata in termini di sfruttamento umano" ( Cfr. R. Romanelli, L'Italia Liberale, Il  Mulino, 1979). Il Faccio non potendo accusare gli abitanti del luogo come amorali, li apostrofava in termine dispregiativi come ipocriti, aveva minacciato anzi di licenziarli tutti e di sostituirli con operai fatti venire appositamente dal settentrione; a questa minaccia si oppose il padrone della fabbrica, il marchese Claudio Sesto Ciccolini, per motivi economici e di opportunità.

Sibilla Aleramo è un tutt’uno con i padre con il quale condivide dubbi, speranze e progetti circa i futuri destini della fabbrica: “Pel breve tratto  fra la fabbrica e la nostra casa (l’attuale via della vetreria), egli mi parlava con un’inflessione di voce ch’io sola gli conoscevo, non dolce, non tenera, ma esprimente il riposo, l’attimo di sosta e di abbandono. Mi confidava: “Bisognerà tentare questo e quell’altro… Allora potremo aumentare un poco i salari”. Pareva anche domandare il mio avviso. Ed io pensavo alla felicità di trovare pur io qualche cosa di nuovo da suggerirgli. La fabbrica diventava per me, come per lui, un essere gigantesco che ci strappava ad ogni altra preoccupazione, che ci teneva perennemente accesa la fantasia” (pag. 31) In mezzo a tutte queste incombenze, Rina Faccio trascura la mamma che non riesce più a sollevarsi da un triste stato di abbandono e di malinconia, che la porterà di lì a poco ad un gesto insano, complice i tradimenti del marito, quello di gettarsi dal balcone del palazzo Sforza Cesarini. “Ella non aveva saputo sin dai primi giorni liberarsi da una certa timidezza che le impediva di andare sola o coi bimbi per la spiaggia o pei campi. Il paese non offriva altri svaghi: le donne dei maggiorenti non uscivano quasi mai di casa, ignoranti, indolenti e superstiziose, le contadine lavoravano più che i loro uomini; gran parte della popolazione viveva sul mare e del mare, riparando la notte nelle catapecchie che si ammucchiavano a cento metri dalla riva” (pag. 32).

Sono le case dei pescatori, alcune delle quali ancora visibili lungo le vie di quel quartiere un tempo chiamato Shangai È l’incasato che si snoda tra Corso Dalmazia, già via della spiaggia e Corso Umberto I, delimitato dalle vie: Conchiglia, Nave, Lido, Ancora, Gondola, Carena, Timone, Rete, Remo, Vela. La toponomastica delle strade è chiara. Era un quartiere abitato esclusivamente da famiglie di marinai. Case basse costruite con pietre e terra. Quelle ad un piano avevano due locali: una camera ed una cucina, abitate da una sola famiglia, quelle a due piani erano abitate da due famiglie, l’una  a piano terra, l’altra famiglia, al piano rialzato. La scala per accedere al piano superiore era stretta e ripida, posta quasi in verticale. I servizi igienici erano costituiti da “sportelletti” situati in basso accanto alla porta principale, collegati ad un sistema di fognature scoperte che sfociavano in mare. Le prime case vennero costruite attorno al 1705, all’altezza dell’attuale Corso Dalmazia, perché il mare arrivava proprio lì. Il modesto incasato si sviluppava poi verso sud, sul prolungamento di Corso Dalmazia, via Garibaldi da un lato e la ferrovia dall’altro. Erano gli abitanti di Civitanova Alta che si dedicavano alla pesca, nessuno però risiedeva sulla costa ancora infestata da pirati saraceni. All’inizio solo piccoli capanni dove riporre le barche e le reti. Nel corso del 1800 la costa iniziava a popolarsi e tutto il borgo, all’inizio del 900 cominciava ad avere un aspetto ordinato con strade allineate e simmetriche che si accentravano, allora come ora verso la piazza XX Settembre, cuore e nucleo del centro rivierasco.

Le condizioni igieniche comunque rimanevano del tutto precarie, stando alle carte di archivio ed alle pagine del romanzo di Sibilla Aleramo che scrive anche: “migliaia di pescatori vivevano ammucchiati a pochi passi da casa mia”( ibidem, pag. 125). Le abitazioni umide, prive di acqua potabile, le strade che raccoglievano liquami di ogni sorta erano i focolai di ogni epidemia. Tragica fu l’epidemia di tifo del 1899 nel corso della quale morirono i due medici: Pellegrini e Frisciotti. Il primo, l’amico confidente  di Sibilla Aleramo, così viene descritto nel romanzo negli ultimi giorni della sua vita: “Appariva stanco. In paese serpeggiava il tifo, ed egli andava, dal mattino alla sera, dall’una all’altra casetta di povera gente, con la persona un po’ curva; la voce sempre un po’ velata di tristezza doveva dare agli infermi la speranza, doveva confondersi coi suoni aleggianti intorno a chi muore o teme di morire… Il meningo-tifo, manifestandosi improvviso e violento, aveva atterrato l’uomo gracile che pareva covare da alcun tempo la morte” (Ibidem, pag. 144).

Ma la vita offriva anche qualche serata trascorsa in compagnia del proprietario della fabbrica che risiedeva nel vicino capoluogo (Macerata). “Scendeva il crepuscolo e l’ora della partenza del treno si avvicinava”. (pag. 32). La strada ferrata nella tratta Ancona Pescara era stata inaugurata nel 1863, quella per Macerata Fabriano era stata aperta nel 1884, tre anni prima dell’arrivo a Porto Civitanova della famiglia Faccio.

Tra la famiglia Faccio ed il paese si va progressivamente innalzando quasi una barriera: “Verso mio padre s’era ben presto accesa una sorda ostilità” (pag.33). Sprezzante è il giudizio di Sibilla Aleramo sul paese. Il quadro che ne esce non corrisponde  forse alla realtà del momento storico vissuto dalla cittadina che si andava allora formando, ma non possiamo nemmeno prescindere da quello che scrive: "Nel paese, che si decorava del nome di città, non esistevano scuole al di sopra delle elementari". Non se la passano meglio i maggiorenti e la borghesia: "Non c'erano di ricchi nel paese, che il proprietario della fabbrica, quasi sempre residente a Milano, e un conte, padrone di quasi tutte le terre, il quale faceva rare apparizioni con la moglie, un grosso idolo carico di gioielli, al cui passaggio donne e uomini si curvavano fino al suolo" (ibidem, pag. 33). Senz'altro ci saranno stati altri ricchi, oltre il marchese Ciccolini ed il conte Conti: il conte Sabbatucci, il marchese Ricci, la tenuta Bonaparte amministrata con saggezza da Celso Tebaldi, ma coglie forse nel segno Sibilla Aleramo quando parla di "donne e uomini che si curvavano fino al suolo, al passaggio del conte e di sua moglie", non si spiegherebbe diversamente l'atavica sottomissione nella gente di campagna,  anche in anni a noi molto vicini, legata dal medievale contratto di mezzadria a lo patrò, lo fattò, lo conte, lo marchese.

Sibilla Aleramo diventa impietosa poi verso i professionisti del paese, dal chirurgo incapace di ricomporre il braccio rotto della mamma, a seguito del tentato suicidio gettandosi dal balcone di palazzo Sforza, al notaio "creatura insignificante e melliflua" , alla "decina di avvocati, annidati in un circolo di civili, che suscitavano e imbrogliavano lunghe liti fra piccoli proprietari dissanguati dalle tasse". L'elemento borghese appariva a Sibilla Aleramo "più volgare di quel che avevo supposto; senza dirmelo, temevo che questa volgarità finisse per penetrarmi", una sola persona si salva dagli strali di Sibilla Aleramo, "un giovine dottore toscano (il dottor Pellegrini) di recente nominato... avevo sentito dai primi incontri affine a me per lo spirito meditativo, per la correttezza del linguaggio e, parevami, del pensiero" e quando "in paese serpeggiava il tifo, egli andava, dal mattino alla sera, dall'una all'altra casetta di povera gente, con la persona un po' curva", morendo della stessa malattia che cercava di curare nei suoi pazienti. L'odio verso i maggiorenti del paese, Sibilla Aleramo l'aveva ereditato dal padre: "Mio padre non solo aveva dato segno di non accorgersi di loro, ma aveva respinto con impazienza un banchetto che avevano voluto offrirgli, insieme alla presidenza di non so quali istituzioni antiche, pompose e senza fondi". L'amore per le forme, che nasconde il vuoto culturale, la retorica, la chiacchiera vuota, il provincialismo, la mancanza di orizzonti, il pensare che tutto si circoscriva al proprio ambiente di nascita senza nessun confronto con altri ambienti, sono pericoli sempre incombenti, anzi oggi più evidenti di quanto descritto da Sibilla Aleramo, quando si esibisce di sé solo la propria immagine, ma senza che questa corrisponda a nulla di veramente profondo.

L'odio verso la "cittaduzza del Mezzogiorno", non verso "il popolo ritenuto da Sibilla Aleramo ancora la parte migliore del paese, dotato di una certa bontà istintiva", diventava feroce verso "i soliti scioperati" che in faccia al caffè, sede del circolo, che mi guardavano sorridendo; sentivo che da una parte destavo la loro curiosità, dall'altro offendevo la loro abitudine di veder le fanciulle passare timide, guardinghe e lusingate dai loro sguardi" (pag. 34). Volgarità e manifestazioni maschiliste sempre attuali. A lungo andare "Il paese mi veniva in uggia, e se non l'aborrivo era unicamente a causa delle bellezze naturali che non mi stancavo di ammirare... Il mio settentrione, attraverso le nubi del ricordo, m'appariva ora desiderabile, pieno di incanti" (pag. 35 ).

Ma la mamma peggiorava nella malattia, fino a compiere l’insano gesto, gettandosi dall’alto del balcone di palazzo Sforza Cesarini: “Un gran sussurro nella  piazza sottostante mi fece trasalire… Esclamazioni di sorpresa e di dolore salivano dal basso, con uno scalpiccio come di persone che recassero un peso… Vidi il corpo di mia madre portato da due uomini…Uno stuolo di gente seguiva… Mi riscosse un vocio di donne. Raccontavano. Avevano visto affacciarsi al nostro balcone la figura bianca, scambiata così al sole per una di noi bambine, le avevano fatto cenno di rientrare. La figura s’era sporta, indi abbandonata, piombando di fianco sul terreno” (pag. 37). È come se al tentato suicidio della mamma avesse partecipato l’intero paese, centrale com’è palazzo Sforza, poi la notizia si diffuse in un baleno.

Ma la vita continua. Siamo al quarto anno del soggiorno civitanovese di Sibilla Aleramo e della sua famiglia. “Una volta ancora tornò l’estate. Io compivo i quindici anni. Alla spiaggia dove la colonia bagnante si riuniva  e invitava talora a’ suoi passatempi, mi vedevo osservata con curiosità da tutti, guardata con insistenza da uomini di varia età, e un giovane prima, malaticcio e motteggiatore, poi un altro quasi ancora adolescente, dal corpo forte ed agile e dalla testa ricciuta che mi ricordava certi bronzi visti nei musei, mi occuparono per qualche settimana la fantasia senza farmi battere il cuore né destarmi istinti di civetteria” (pag. 42). Ancora sole e mare: “Facendomi cullare dall’onda per ore ed ore sotto il sole ardente, sfidando il pericolo coll’allontanarmi a nuoto dalla riva fini a non essere più visibile, io mi unificavo con la natura e sfogavo insieme l’esuberanza del mio organismo”(pag. 43)

 

IL TURISMO A PORTO CIVITANOVA

 

I primi alberghi di Porto Civitanova degni di questo nome furono : “Albergo Ristorante alla Stazione”, dove è attualmente, più o meno, la pasticceria Romana, aperto nel 1913, l’Hotel Butteri, in seguito Albergo Italia, ora BNL lungo il corso Umberto, il bar ristorante Sirenetta di Fontespina, la pensione Ristorante L’Isola, oggi “Hotel Diana”, nacquero come primi tentativi per fornire la cittadina e quanti vi si fermavano per ragioni commerciali o di lavoro, di servizi pur necessari, ma in una situazione di confusione e di sviluppo spontaneo.

Il turismo a Porto Civitanova, anche se in anni leggermente successivi a quelli di Sibilla Aleramo, nella stagione estiva, era rappresentato da famiglie dell’entroterra marchigiano o proveniente anche dal Lazio, Umbria, Lombardia, che prendevano alloggio presso privati cittadini, scegliendo la frazione di Fontespina come luogo per il soggiorno e la balneazione. Una cronaca del 26 agosto 1908, riportata dal periodico provinciale “L’Unione“, la descriveva come “una borgata incognita nella quale però quest’anno si sono dati convegno numerose famiglie che, insieme ai piccoli ospiti dell’Ospizio Provinciale Marino e del Convitto Nazionale di Macerata, formano la colonia bagnante allegra e spensierata che ha trovato la libertà senza rinunciare alla vita” Nell’articolo si esaltava la salubrità dell’aria, il clima mite, le frescure deliziose dei campi e la salsedine fresca del mare.

Le lodi sperticate del 4 agosto 1909, riportate dallo stesso giornale sulle “ fette di case che sorgono quasi dalla sera all’alba, sull’aria buona, sul pesce fresco”, appena pochi giorni dopo, il 25 agosto, si tramutavano in lamentele sulla mancanza di servizi pubblici ben organizzati, l’assenza di uno stabilimento balneare degno di questo nome, nessuna cura della igiene pubblica, fitti delle case e viveri a prezzi  irragionevoli”, la cittadina non aveva servizi decorosi nei restaurants e nei caffè. Così infatti continuava l’articolo: “Anche durante le serate di maggior affollamento vi capiterà spesso di vedere il cameriere in maniche di camicia, che non si curerà affatto di voi o il proprietario stesso che terrà circolo politico, discutendo con linguaggio assai poco parlamentare, senza preoccuparsi del povero bagnante... Il Municipio non cura abbastanza la pulizia urbana, è sempre più che deplorevole il malvezzo di scaricare, in pieno giorno, le immondizie sulle vie, di adibire l’uscio di casa a gabinetto di toilette e peggio”. Ma tornando alla cronaca di anni lontani, arriviamo al 1923, anno che segnò per Portocivitanova la realizzazione di un bellissimo “stradone al mare che congiunge, con un rettifilo di 800 metri circa, la Piazza XX Settembre all’ippodromo” che sorgeva là dove ora c’è lo stadio. L’amministrazione si impegnava a prolungare lo stradone fino alla frazione di Fontespina, in modo da ottenere una magnifica arteria lungo la marina di circa 4 Km, cioè una delle migliori passeggiate della Riviera Adriatica”

Di questo stradone, degli alberi “Populus Canadensis”, del marciapiedi e sedili, è rimasto ben poco; tutta l’arteria dal fondo sconnesso, è il regno del traffico automobilistico, rumori, cemento, case, scatole e scatoloni, negozi che non hanno nulla a che vedere con il turismo.

Furono indubbiamente gli anni trenta a segnare, almeno sulla carta la congiuntura favorevole per lanciare Civitanova Marche come centro balneare. Distrutto da un incendio lo Chalet Miramare il 24 giugno 1930, sorgeva poco lontano rispetto al precedente chalet, nel 1933 il Lido Cluana, fiore all’occhiello di una cittadina che cominciava a nutrire anche ambizioni turistiche. Il complesso era costituito da due palazzine, con ampie terrazze, ristorante, bar ed un salone per banchetti. L’opera, completata da una pista da ballo e da un bel giardino, era proprio a ridosso della spiaggia, allora molto più arretrata di oggi. La costruzione dell’ippodromo nel 1923, uno dei più belli dell’Italia centrale, il Lido Cluana, furono davvero qualcosa di eccezionale sotto il profilo turistico.

I bombardamenti della seconda guerra mondiale, la ripresa delle attività produttive e della pesca, cancellarono del tutto qualsiasi progetto a lungo termine, di promozione turistica della cittadina rivierasca.

N.B. Per la stesura di questo pezzo, mi sono servito di due contributi, l’uno di Angelo Gattafoni: “Il turismo civitanovese iniziato in ritardo... in compenso non è più decollato”, raccolto nel volume “Immagini e Storie”, l’altro di Franco Brinati, “Dal Veneziano in poi”, libro quest’ultimo che contiene anche dei dati sul turismo civitanovese dei nostri giorni.

 

Il prof. Raimondo Giustozzi durante la conferenza

Il prof. Raimondo Giustozzi durante la conferenza

 

IL MATRIMONIO RIPARATORE

Persa la mamma ricoverata presso il manicomio di Macerata, assente il padre connivente con l'amante, fatta oggetto delle attenzioni da parte di Ulderico Pierangeli, uomo di fiducia del padre, impiegato alla fabbrica di bottiglie, Rina Faccio lo sposa, è un matrimonio riparatore, affatto cercato dalla ragazza, violentata quasi dal giovane che mira solo a sostituire in un domani non lontano, il suocero nella direzione dello stabilimento.

Dal matrimonio nasce, il 3 Aprile 1895, il figlio Walter, un altro figlio Rina l'aveva perso sempre a seguito di una relazione amorosa con Ulderico Pierangeli, nei giorni della pazzia della mamma, che, ricordando forse la propria giovinezza, incoraggia la figlia al gran passo, sperando che almeno le possano essere riservate in futuro, le gioie di essere nonna, con attorno tanti nipotini. Fra Sibilla Aleramo, appena quindicenne e Ulderico Pierangeli, già uomo sui venticinque anni, la distanza è abissale, quanto a mentalità, cultura e valori. "Egli non badava alle osservazioni di una ragazzina, stupito soltanto, abituato com'era a considerare la donna un essere naturalmente sottomesso e servile, della mia indipendenza" (pag. 43)... Non pensava affatto che fosse poco dignitoso restare nella dipendenza d'un futuro suocero e d'un uomo, di cui biasimava la condotta".

Quando in paese circolò la voce che Rina Faccio fosse stata allontanata dalla fabbrica, dal padre per la sua relazione con Ulderico Pierangeli, questi non prese affatto le difese della giovane contro i diffamatori di ieri e di allora: "Almeno il mio fidanzato fosse insorto contro i diffamatori. Pareva invece aver preso un contegno speciale di fronte ai suoi compagni, come se fosse tutto ad un tratto salito di dignità" 8pag.52). Il giovane, geloso, pretendeva che la ragazza non dovesse affacciarsi nemmeno alla finestra e che scappasse in camera sua ogni qual volta capitasse in casa qualche uomo, compreso il dottore della mamma"(pag.53) "Lo sapevo incolto, ma l'avevo ritenuto più agile di mente, il suo carattere soprattutto deludeva la mia aspettativa, con qualcosa di sfuggente, di ambiguo"( pag. 52)... Deciso a non lasciare l'impiego in fabbrica, calcolava su prossimi miglioramenti e su una futura successione a mio padre. Dibatté a lungo con lui la questione della dote, alfine si rassegnò ad accettare soltanto un assegno mensile. Voleva una promessa legale, ma mio padre, indignato, fu per troncare ogni trattativa... Il mio fidanzato non disponeva di nulla, appena di che rifornirsi il guardaroba e comperarmi l'anello matrimoniale... Il babbo diede il denaro per il mobilio. I miei futuri parenti non intervenivano che per meravigliarsi della poco larghezza nostra" (pag. 54) "Ignorante più ancor che brutale... se una causa di malcontento gli davo, risiedeva nella insofferenza sempre più acuta dei miei sensi ad ogni tentativo di perversione" ( pag.66)... "Lo guardavo talora, sempre sicuro di sé, pago intimamente della sua situazione, debole e pauroso di fronte ai superiori e alla folla, privo di ogni intuizione, inetto nella carezza come nel rimprovero, inutile, estraneo alla mia vita" (pag. 78). L'essere spregevole del marito viene delineato in questa descrizione: "Ho il confuso senso della disperata ira che mi assalse quando, dopo una notte inenarrabile in cui il mio viso ricevette a volta a volta sputi e baci, e il mio corpo divenne null'altro che un povero involucro inanimato, mi sentii proporre una simulazione di suicidio. "Bisogna che io ti faccia morire di mia mano, ma non voglio andare in galera, devo far credere che ti sei data la morte da te stessa" (pag. 90). "Il  mio corpo, lo sentivo rabbrividendo, acquistava su di lui un'attrazione più acuta, dolorosa. Il ricordo della mia invincibile ripugnanza per gli atti dell'amore non gli richiamava alla coscienza lo scempio commesso su me fanciulla, ma certo doveva suscitargli confusi rimproveri per non aver avuto un delicato rispetto verso il mio organismo immaturo, per non aver saputo amorosamente destare in me la donna" ( pag. 96).... In certi momenti rompeva in singhiozzi, confessandosi miserabile. Non mi aveva più battuto. S'era inginocchiato davanti a me, chiedendomi perdono per non essere stato generoso, di avermi spinta al passo disperato... Nella mia sensibilità di inferma ero tratta a considerarlo un povero compagno di sventura, come me trastullo e vittima di cieche vicende" (pag. 97). Pietà di Rina per il marito: "In Ulderico giocavano molto la gelosia e l'ambiente sociale nel quale viveva, la prima si nutriva del secondo in una spirale di pentimenti più o meno coscienti, ma l'onore che doveva sacrificare a quello che si diceva su di lui e sulla compagna, esplodeva continuamente".

Pusillanimità dell'uomo: "Quando mio marito vide che né spontaneamente, né in seguito alle sue ritrattazioni, mio padre lo richiamava, un'onda di disperazione lo avvolse e malgrado l'alto concetto di sé tremava, egli era senza diplomi, quasi senza denaro e non più giovanissimo". La meschinità dell'uomo: "In quel momento un'onda di reazione percorreva l'Italia, mio marito cercò la rivista che portava il mio articolo, alcune lettere di antichi e nuovi corrispondenti che me ne complimentavano e buttò tutto sul fuoco, vi aggiunse un mucchio di giornali e riviste, indi si mise a frugare tra le mie carte" (pag. 119).

 

LA CASA

Giovane sposa, così descrive la casa nella quale era andata ad abitare  con il marito: “le finestre della saletta da pranzo del nostro appartamento davano su uno stradone, di là dal quale si stendevano alcuni orti; al fondo si scorgeva un profilo di colline e una striscia di mare. Le altre stanze guardavano su un giardino piccolo e deserto, corso da malinconiche spalliere di bosso, e su la linea ferrata. Ogni tanto, di giorno e di notte, la casa tremava leggermente per il giungere e il partire dei treni, e nelle stanze si prolungava l’eco dei fischi. Al piano di sotto v’erano inquilini pressoché invisibili” (S. Aleramo, Una Donna, pag. 44). Con tutta probabilità l’appartamento di cui parla la scrittrice si trovava nei pressi della stazione, forse all’altezza dell’attuale albergo. Lo stradone è Corso Umberto. Le colline sono quelle che salgono verso Civitanova Alta. Al di là della linea ferrata non c’erano case nella Porto Civitanova del tempo. Tutto l’incasato si distribuiva attorno alla piazza.

La nascita del figlio viene ad allietare la vita monotona di una donna quasi reclusa in casa: “La primavera e l’estate mi videro scaldarmi al sole insieme alla mia creaturina. Sostenevo il piccino nel suo sgambettio tentennante, poi lo prendevo in braccio, lo portavo attraverso i campi o in riva al mare, a lungo, ansando talvolta e sorridendo insieme per la fatica”. (S. Aleramo, pag. 71).

Dopo la breve e tormentata parentesi della relazione con “un forestiero” e la violenta gelosia del marito nei suoi confronti, Sibilla Aleramo ritrova una breve parentesi di felicità, di nuovo con suo figlio che aveva ormai due anni:“Io andavo, col mio bimbo per mano, lungo le deserte strade maestre, tutte uguali, fiancheggiate di biancospini, fragranti nella primavera, polverose l’estate. Lontano emergeva una doppia catena di altezze, colline dinanzi, dietro gli Appennini. Borgate in cima a qualche poggio si sporgevano, evocando il medio evo colle loro cinte merlate, colle casette brune raggruppate intorno a qualche campanile aguzzo. La campagna e il mare erano talora abbaglianti, talora cinerei; in certi giorni il silenzio imperava, strano e dolce, in certi altri sembrava che ogni filo d’erba, ogni goccia d’acqua affermasse la sua vita con un sussurro, e l’ara popolata di suoni diveniva come sensibile. Le linee del paesaggio m’erano familiari da tanti anni…” (Cfr. p. 121).

Le strade polverose di un tempo, fiancheggiate dalle fratte! I biancospini, i “murrigini”, le more! Si ’niru ‘mmuricatu! D’estate, quando il sole picchiava forte, si diventava scuri di pelle, quasi neri, come nere erano le more. “Era il tempo delle more… e i gigli attorno a noi”. Tempi lontani anni luce! Le strade bianche, “brecciate”, polverose d’estate e fangose d’inverno. Sono un ricordo abbastanza vicino nel tempo. La strada per Civitanova Alta, Montecosaro, Macerata verrà asfaltata solo alla metà degli anni sessanta. L’appalto del lavoro verrà dato alla ditta Sardellini di Macerata.  Qualche collega a cui facevo vedere delle fotografie della campagna civitanovese, che scattavo quando, venendo da Milano, trascorrevo qui i mesi estivi, rideva divertita, pensando chissà a che cosa. Sono fotografie non vecchie, risalgono solo alla fine degli anni ’80. Per me che vivevo qui per poco tempo, quegli angoli erano ciò che mi aiutavano a vivere nei lunghi mesi invernali, al freddo ed alla nebbia della campagna lombarda. Si sa che quando si vedono le stesse cose tutti i giorni, quasi non si fa caso ad esse o le si guarda con malcelato fastidio. La nostalgia viene quasi sempre quando si è lontani da ambienti, volti e persone che si sono conosciuti fin da piccoli. Meglio il paesaggio dell’anima che quello reale con il quale si ha a che fare tutti i giorni.

“Il paese mi veniva in uggia, e se non l’aborrivo era unicamente a causa delle bellezze naturali che non mi stancavo di ammirare… il mio settentrione, attraverso le nubi del ricordo, m’appariva ora desiderabile, pieno d’incanti: la città sopra tutto, l’immensa città col suo formicolio umano” (S. Aleramo, pag. 19).

Trascorsi circa quattordici anni dall’arrivo a Porto Civitanova, Sibilla Aleramo lascerà definitivamente la cittadina nel 1902 e non vi farà più ritorno a seguito della rottura del matrimonio con Ulderico Pierangeli, ripensando "al marito, al paese a cui attribuivo le colpe di tutte le mie sciagure, il pervertimento di mio padre (che se ne andò con un'altra donna), la pazzia di mia madre (ricoverata presso l'ospedale psichiatrico di Macerata), il mio matrimonio fallace (Rina Faccio si era sposata nel 1893 con Ulderico Pierangeli) , quel paese ottuso, semibarbaro, a due passi dal borgo leopardiano che pur aveva dato alla mia adolescenza la prima forte nozione della natura, con il litorale di sabbia e di cardi; il mare verde, la campagna dolce d'ulivi e grani, ed i grandi cieli all'orizzonte", scriverà nel proprio romanzo autobiografico: " In verità, circoscrivendo in certo modo la sua prigione, l'uomo si sente tra le mura cittadine più libero e possente che sotto l'infinito cielo stellato, che dinanzi al mare ed alla montagna, incuranti di lui: ciò spiega anche l'ostentazione del progresso che le metropoli, chiamate anche quadri viventi, offrono" (pag. 184).

Ciò che avversava dei comportamenti sociali diffusi nel paese era l'ipocrisia. Dopo la morte del suocero Luigi Pierangeli, portato via dal tifo: "appresi la retorica del lutto. Mio marito e mia cognata che non l'avevano considerato se non come il detentore di un denaro comune, proclamarono un dolore atroce, credettero forse per qualche tempo di soffrire indicibilmente" (Ibidem).

Non si può penetrare nei sentimenti né mettere alla prova quello che Aleramo scrive, perché non si hanno gli strumenti per farlo, soprattutto perché non si dispone di ciò che la controparte avrebbe potuto dire. Si può farlo forse soltanto con quello che Rina Faccio scrive subito dopo: "Nel paese regnava una grande ipocrisia. In realtà i genitori, sia fra i borghesi, sia tra gli operai, venivano sfruttati e maltrattati dai figli tranquillamente; molte madri soprattutto subivano sevizie in silenzio". Ed ancora l'ipocrisia: "Non una moglie era sincera col marito nel rendiconto delle spese, non un uomo portava intero a casa il suo guadagno. Poche coppie mantenevano la fedeltà reciproca e di parecchi signori s'indicava l'amante in qualche donna che viveva da sola, e con un marito, su cespiti inconfessabili. Poco tempo prima un feroce parricidio aveva funestato una casa: il figlio aveva colto suo padre con la propria moglie. Molte ragazze si vendevano, senza la costrizione della fame, per la smania di qualche ornamento; a quattordici anni nessuna rimaneva ancora del tutto ignara. Ma restavano in casa, ostentando il candore, sfidando il paese a portare prove contro la loro onestà. L'ipocrisia era stimata una virtù. Guai a parlare contro la santità del matrimonio e il principio della autorità paterna. Guai se alcuno si attentava pubblicamente a mostrarsi qual era" (pag. 69).

In seguito alla relazione con "Il forestiero", in paese si era formato quasi uno schieramento di due opposte fazioni; da un lato i colpevolisti, dall'altro gli innocentisti, ma anche in questo caso era l'ipocrisia a farla da padrone: "I miei partigiani potevano sprezzarmi in segreto, ma dovevano esaltarmi ad alta voce; quelli dell'avvocatino e dell'arciprete non mi conoscevano per nulla e dovevano proclamarmi disonesta" ( pag. 90), tanto conoscevo la corruzione e l'ipocrisia dell'ambiente" (pag.100).

Pesante è anche il giudizio sulle donne del paese: "Le chiacchiere meschine e pettegole delle donne si alternavano con le discussioni rumorose degli uomini", questo avveniva nel corso degli incontri serali passati in casa di un parente del marito, capo della fazione democratica, secondo una abitudine presa nei primi anni del matrimonio con Ulderico Pierangeli. " Già l'inerzia che possedeva tutte le donne del paese cominciava a parermi, in certo senso, invidiabile. La cura pigra ed empirica dei figlioli, la cucina e la chiesa erano tutta la loro vita" (pag.59).

Il naufragio del matrimonio con Ulderico Pierangeli, diventava anche il crollo del padre di Sibilla Aleramo, Ambrogio Faccio con la fabbrica di bottiglie. "L'ostilità ormai aperta di tutto il paese, la rivolta del sentimento pubblico ispirata dall'arciprete, dai civili invidiosi, da operai scacciati, esasperavano il suo amor proprio ed anche il suo atteggiamento di provocazione gli faceva perdere sempre più il senso della realtà" (pag. 61), "il babbo sfidava gli operai, minacciava di abbandonare  per sempre l'impresa a cui da tanti anni dava tutto il suo vigore. Non poteva ammettere un controllo, una volontà emanante dai subalterni" (pag. 152) Gli operai scendevano in sciopero per chiedere salari migliori, riconoscendosi nella locale Camera del Lavoro fondata tra gli altri da Michele Alfredo Capriotti, il giovane avvocato che sposerà civilmente la secondogenita del Faccio, Corinna, sfidando quest'ultima le ire del padre, che rassegnate le dimissioni da direttore della vetreria in favore di Ulderico Pierangeli, se ne andrà a Roma per tentare una improbabile attività di floricoltore. Scrive Sibilla Aleramo sul declino del padre che pur aveva sempre ammirato, prendendolo a modello: "Il tempo era scorso anche per lui; aveva arrugginito il baldo organismo di pensiero, di energia, col quale aveva trasformato tutta una popolazione, scotendola da una inerzia secolare ed avviandola a nuove mete" (pag. 178).

Il diverbio di Ulderico Pierangeli, marito di Sibilla Aleramo, con il direttore Ambrogio Faccio, padre della scrittrice, porta i due coniugi ad una decisione: lasciare Porto Civitanova, destinazione Roma dove Rina Faccio aveva avuto una promessa come collaboratrice di una rivista femminile. Ecco come descrive l’allontanamento dal paese: “Il mare, la campagna, le strade del borgo, in quella fine di settembre, dovevano avere una fisionomia dolcemente stanca, esalare la migliore espressione della loro anima… Dopo undici anni dacché li avevo visti per la prima volta, li lasciavo, movendo incontro all’ignoto” (pag. 128). Possiamo immaginare l’ultimo saluto alla via ed alla casa dove Sibilla Aleramo aveva abitato insieme al figlio ed al marito, quella villa che si trova all’inizio di via della vetreria: “Scoccarono le tre. Balzai in piedi. Mi misi il mantello e m’appressai all’uscio…Mi trovai sul treno senza sapere come vi fossi venuta. I primi urti del carrozzone si ripercossero in me come se qualcosa si strappasse dalla mia carne” (pag. 199).

Dopo aver lasciato il figlio ed il marito nel febbraio del 1902, Sibilla Aleramo non metterà mai più piedi a Porto Civitanova, “la vedrà solo dal finestrino del treno nel 1946 in occasione della campagna referendaria in favore della repubblica, quando era già legata al poeta fermano Franco Matacotta”.

 

Civitanova Marche, 23 novembre 2007.

 

[Torna indietro]